Gabriella Pirovano
Domenica 27 febbraio si parte, le notizie
dall’estero dell’ultimo periodo ci fanno da sfondo ed
il preventivato scalo al Cairo è rimasto tale dato che in simultanea
si è scatenata la Libia, viste le cronache degli ultimi tempi
è meglio non variare i programmi, non si sa bene lungo quale
parallelo o meridiano muoversi e Fabri ce lo conferma, osservatore
attento dei movimenti nel cielo di Sicilia quando accompagna Ginevra,
Angelica ,Giovanna, Camilla, e Antonio i suoi cinque asini ragusani.
Riusciamo anche ad imbarcare le dieci valigie malgrado un rigido burocrate
egizio, vorrebbe imporci un nuovo regolamento che esige un solo collo,
la carta del “siamo in missione per conto di Dio” del
Don funziona e alla fine è scampato il pericolo per le magliette
dei calciatori. Così in attesa che l’Egyptair apra i
cancelli, controlliamo le ultime cose tra Angela, la nostra fotografa
ufficiale che si riscalda, Ele, incuriosita dai “pupi”
di Fabri: “hai dei figli?”, e il Don che si chiede se
la sua protesi scatenerà il metal detector. Decolliamo da una
grigia Malpensa verso l’Africa ma la lettera che mia figlia
Bea mi ha scritto, ‘come da tradizione scout’, (da leggere
al decollo!) scalda il cuore. Lo scalo al Cairo in tarda serata si
rivela una vera e propria noia, dato il buio nemmeno l’ombra
di una piramide e si respira un’aria di irreale tranquillità.
Così tra Fabri che già ce la tira con la c…….rella
che fa rima con Gabriella e mi aggiorna sulla terapia con gli asini,
atterriamo allo Jomo Kenyatta International, ore tre: rintracciamo
le nostre dieci valigie, dopo aver ricevuto l’imprinting del
visto incontriamo Leo che ci aspetta per condurci a Kitenghela. La
notte è nera, Leo alla guida del suo pullmino ci introduce
in Africa, “the darkness claimed us……” come
un ‘cuore di tenebra’, gente che cammina, matatu che sfrecciano,
una strada che alle prime luci dell’alba vedrà i bambini
correre a scuola, loro, piccoli maratoneti. Urafiki-casa: aspettiamo
l’arrivo delle prime luci dell’alba “colazionando”
con mango, ananas (ma perché qui sono così buoni?!),
caffè e con Leo che racconta di sé e Maria, 40 anni
in Kenya da volontari (Maria giunta da Trieste ma tuttora sicula nell’anima
e Leo da Torino). Si sono incontrati qui e hanno aperto il dispensario
in terra Masai. Leo è uomo dalle mille iniziative, tecnico
ortopedico con molteplici attività nel suo curriculum ora produttore
di sughi e sottaceti nel loro podere. Al canto del gallo ci raggiunge
Maria e la simbiosi tra siculi è garantita. L’alba ci
sorprende tra repliche di colazione con il cuoco James , il piccolo
Alessandro tra le braccia, gli approcci di Fabri con l’asino
locale “più piccolo di quelli ragusani…che sono
molto più belli!” e la pianificazione del viaggio verso
Sololo . |
In realtà Margot con la sua efficienza ci ha già
organizzato tutto e lo testimoniano, il cellulare pronto per la
Safaricom, una chiavetta internet di cui smarriremo memoria e la
sua lettera:
“Viaggio per Naniuki: ecco una lista delle cose necessarie
[…] il frigorifero nuovo deve essere trasportato in piedi
quindi arriverà col camion, regolarsi di conseguenza per
la spesa” ( la temperatura è francamente estiva) .
Dopo la visita alla tenuta ci aspetta il cambio ed un giro per Nairobi
con Leo e la sua assistente, le palpebre calano tra una consegna
dei sottaceti e le prime compere da “alimentari Fabio”.
I nostri occhi incontrano per la prima volta “Nairobbery”:
i quartieri e la periferia, i bambini di strada che sniffano la
colla, le note baraccopoli: Kibera e Korogocho. Rientriamo e incontriamo
Cinzia, la piccola masai , una delle tante storie di abbandono e
malnutrizione, che si è smontata ben due gessi al piede ,
la sua destinazione? orfanotrofio. Maria racconta del dispensario
e dei suoi casi, le diagnosi di AIDS: dire o non dire?, di un bimbo
che si rifiuta di parlare (“cosa fare?”, “potresti
vederlo…” forse al ritorno), della sua passione per
le erbe curative che prima sperimenta su di sé. Ma il tempo
fugge ed anche noi …. dopo più tentativi di carico
bagagli e viveri sull’auto di Joseph ci infiliamo nel mezzo
come sardine: direzione Nanyuki. Viaggiamo spediti verso il Meru,
lungo una strada dove le scuole non mancano, tra piantagioni di
caffè, riso, mango e ananas Del Monte segnalate a zone dai
baracchini-shop che vendono il prodotto. E ancora, recinzioni chilometriche,
mucche costrette al pascolo sul bordo strada, amarcord della colonizzazione,
i Kikuyu, le urla dal fondo della macchina contro Angela che fuma,
canzoni stonate, la foto di rito all’Equatore. Joseph mi racconta
che vorrebbe visitare l’Italia ma: “tiene famiglia ed
il viaggio costa”. Cerca uno sponsor che finanzi la sua avventura,
ci chiede suggerimenti, gli propongo il più famoso in Italia,
ma lui non lo conosce, increduli festeggiamo vista la fama che ultimamente
ci precede all’estero. Arriviamo, incontriamo Robert, ci dirigiamo
al Nakumatt per la spesa e uno spuntino. Ci raggiunge anche Egidio,
“il veneto ex manager del cellulare”,che ci mostra il
suo centro di riabilitazione per ragazzi di strada.
Il deserto del Dida Galgalu ci attende con Robert al volante, macchina
da guerra sulla pista, il “tour operator” che mastica
miraa (“ma che roba è?”) e che segnala ad Angela
ogni angolo da fotografare (“cross…picture”).
Carichiamo zaini e valigie : “ma noi dove ci mettiamo?”,
compriamo patate lungo la strada, sostiamo per un tè a Isiolo
e Fabri che insiste: “Angelina, Angelina………eGGGabbbriellla
e…..rella”, Archer’s Post, scorgiamo i Samburu.
A Laisamis ci fermiamo per un caffè da Enrico che però
non c’è, dopo un’esibizione canora alla materna
della missione Robert ci richiama all’ordine. Pronti via,
lungo la Trans-Africa Highway, Loglogo, la sosta con pranzo Marsabit
e Pino che ci contatta al telefono. E’ agitato perché
siamo in ritardo sui tempi”, ma per Robert “hakuna matata”,
se parte non si ferma più!, come la nostra voglia di arrivare
a Sololo che è tanta e l’adrenalina che sale in questo
meraviglioso paesaggio che muta nei colori. I dik-dik, il Jumping
costante più efficace di mille idromassaggi, “ma le
giraffe?!......ma gli elefanti?!..........almeno una zebra no?!”,
la terra rossa che ti avvolge e ti colora, che già sembri
abbronzato.
Superiamo l’ultimo “check point”, passata la barriera
è un altro mondo …
Al tramonto è Sololo! Pino, il ‘traghettatore’
che ci accoglie con Gufu e il coordinatore del CIPAD. Ci guardiamo
e ridiamo delle nostre facce marroni mentre Pino fa partire “Africa’’
al nostro ingresso nella guest-house. Qui all’Obbitu dopo
tanti salti nel deserto è pace, è paradiso, anche
se l’acqua è calda, va razionata e non c’è
il frigor!, tutto è andato bene, neanche una foratura, pagheremo
lo scotto di questo privilegio al ritorno.
Il risultato del caldo e di tanto saltare con la jeep sulla pista
lo scopriamo allo scarico viveri: formaggio che cammina e olio uscito
da uno dei mitici sughi di Leo, ma tutto il resto è indenne.
Pino ci indica gli alloggi ‘comunicanti’ per la condivisione,
le regole della guest-house nell’ottica del “questo
è quanto, ciò che sprechi prima ti manca poi”,
il luogo è essenziale, pulito da ogni inutilità, accogliente.
Così il resto dell’Obbitu, che visitiamo la mattina
dopo, incontrando i cuccioli protagonisti di questo luogo, quelli
che ancora non vanno alla scuola elementare alzandosi alle 5 del
mattino. Bevono una tazza di latte seduti a terra appoggiati al
muro della loro casa realizzata in stile Borana con la mama che
li accudisce. Ci guardano, ci studiano, poi è subito incontro
e festa, non si può resistere alle pazzie di Fabri teatrante
dal cuore generoso.
Parliamo con i protagonisti di questo progetto, gli operatori Tumme,
Paul, Abdud, che si occupano della clinica mobile e delle visite
domiciliari con professionalità.
La prima uscita è accompagnata da un avvertimento di Pino:”qui
la situazione è pesante e al di la dei programmi che si fanno
c’è un’emergenza “sopravvivere” che
determina modificazioni in itinere, Il rispetto è la prima
regola”. Visitiamo il pozzo ma non è operativo a pieno
regime, si cerca ancora di capire la causa del malfunzionamento.
Incontriamo le donne Borana in attesa ed è luce, colori ,
suoni, che nemmeno un quadro di Gaugin...
Scambiamo informazioni con il Chief locale, si discute di una lista
da cui devono selezionare delle persone che potranno usufruire del
rifornimento acqua del progetto, in attesa che il governo mantenga
le promesse. Il Chief propone una trivellatura nei pressi di un
altro pozzo che collassa, un geologo ha fatto indagini, gli hanno
detto che più in basso c’è acqua, “Sì
ma quanta?” la coscienza pratica di Pino, “qual è
il costo?”, il prezzo sembra buono. Ci rechiamo sul posto
ma prima si passa al dispensario, vi sono tank distribuiti dal Progetto
per le famiglie, si ridiscute con i referenti locali “bisogna
scegliere, se si investe in una soluzione, si rinuncia alle altre…”bisogna
operare scelte mediate ed avere un atteggiamento critico. Ci si
confronta, si riflette, e la parola diventa prassi. Finalmente giungiamo
a destinazione, il Chief contatterà i trivellatori, l’appuntamento
è per il giorno seguente. All’alba ci svegliano le
voci animate che arrivano dal pozzo di Ramolle, l’ipotesi
è che abbia ripreso a funzionare, ci si contende la poca
acqua, proseguendo per un’ora buona . Partiamo e recuperiamo
il Chief , tra “ mama lift”, “sena sena”
offriamo passaggi lungo il percorso, sfruttando ogni angolo della
jeep sommersi da taniche e bottiglie.
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Il mattino ci scopre alla ricerca indefessa
dei trivellatori, da Sololo ad Annona ad Uran , pozzi, dispensari,
tracce di anni di interventi ….. Il primo pomeriggio conclude
la nostra ricerca perché i trivellatori sono già partiti,
ce lo conferma il responsabile del gruppo religioso che li ha contattati,
e mette fine anche a questo tentativo. C’è sconforto
negli occhi del Chief che lasciamo alle sue riflessioni. Incrociamo
gli operatori della clinica mobile impegnati nelle attività
sanitarie che comunicano a Pino la rilevazione di acqua contaminata
dalle analisi fatte. Rientriamo: donne che aspettano al cancello dell’Obbitu
confidando in una tanica d’acqua, presenza silenziosa ma non
invisibile.
Giungono voci dal pozzo le sere successive, c’è chi tenta
di recuperare acqua di notte pur di trovarne e di nuovo è agitazione.
Gli incontri e le visite si susseguono, l’invito dei vicini
di ‘capanna’ che sorprendentemente preparano per noi una
vera e propria cerimonia, con danze sulla pelle della mucca e canti
della tradizione Borana lasciandoci basiti. Visitiamo Amballo dove
c’è un pozzo di acqua salata, luoghi biblici, ‘il
paradiso perduto’ anticipa un cartello sulla pista, la sorpresa
degli amici Gufu, Tumme e compagnia che ci portano nella tana del
leone, un anziano in cerca di sponsor per finanziare gli studi del
figlio, ma prima visita al dispensario e contatto col chief per monitorare
la situazione. Ricevono acqua dall’autobotte, (una gerica da
20 l. al giorno per ogni famiglia) oggi hanno avuto l’ultimo
rifornimento. Difficile fare un calcolo preciso delle persone che
gravitano, circa 750 persone, ci sono un centinaio di famiglie, però
sono in giro non si riesce a fare un calcolo preciso, neanche i referenti
locali lo sanno. Le bestie prendono l’acqua salata. Pino ha
considerato circa 100 famiglie, sta aspettando l’arrivo delle
geriche da Nairobi (‘forse’ in giornata) e ha calcolato
per il rifornimento d’acqua 4 viaggi da 16000 litri, che corrisponde
a 160 litri a famiglia /per 8 geriche da 20 litri. L’unico problema
è il trasporto.
Giunge un invito di Padre Agostino, visitiamo così l’ospedale,
Pino ha lavorato anche qui, e le scuole della missione a bordo della
sua Jeep, sfondata sul lato da una gazzella, che va spinta ogni volta
per farla partire (la jeep ovvio mica la gazzella) . Capita così,
che fermandoci nella casa del Padre per una piccola sosta, in modo
poco ortodosso, ci beviamo qualche bottiglia di acqua “fresh”
da frigor, incredibile! E riceviamo in dono un pezzo di gazzella:
stasera spezzatino!.
Il tempo scorre e le immagini dei giorni che passano ci travolgono.
Il cinema all’aperto, lo spettacolo per i bimbi, il segnale
d’inizio “Africa” e i magnifici 20 che ballano,
poi corrono verso la guest-house, ridono, cantano, “ciciccicià
ciciccicià…afferrare la banana……”,
‘Hakuna matata’ , si infilano tra le tue braccia quando
parte il film e ti sfiorano la pelle mentre incantati guardano lo
schermo così alla fine della serata te ne ritrovi uno o due
addormentati tra le braccia e nessuno di noi a quel punto rinuncia
al piacere di portarli nel lettino della loro casa con la “mama”.
Le Visite domiciliari alle famiglie del progetto con Tumme , Paul,
Abdud instancabili nel condividere e raccogliere parole che dicono
la povertà ‘madre single, 3, 4 , 5 figli, uno a volte
due nel progetto, il marito è morto o se n’è andato,
la madre a volte è affetta da disturbi mentali, effetto della
malaria, o una ragazza madre isolata dalla comunità, o orfani
accuditi da una nonna anziana in alcuni casi malata. Piccole capanne,
una pelle della mucca per dormire,il fuoco, un seggiolino, le taniche
e il mais.
Spezzano pietre, con l’aiuto dei bambini quando tornano da scuola,
raccolgono erba, rami per i tetti delle capanne e con questo guadagnano
qualcosa per comprare il cibo. Fotografiamo i bambini del progetto,
registriamo i dati, le informazioni sulla salute, la scuola. Convivono
così da una manyatta all’altra tra galline, vitelli,
capre … ‘Jambo, Asante, karibu kwa heri’ …
documentiamo, ascoltiamo, chiediamo e vediamo.
Incontriamo gli operatori del CIPAD, la onlus locale, che gestisce
l’Obbitu Children , partner con Mehala e Mondeco per il Progetto
Sololo. Ci informano sulla scuola nomade, il progetto AIDS e la prevenzione
positività, l’Amref, il Comity composto dai rappresentanti
del clan, un organo consultivo che fa da mediatore con la comunità
e riguardo ai rapporti con il Distretto e il Governo.
In attesa delle campane dei cammelli e dei bracciali realizzati dai
Borana (finanziamo l’economia locale!) purtroppo arriva l’ultima
sera, il cinema all’aperto e di corsa da Gufu … ceniamo
sotto le stelle e all’alba si parte, il sole sta sorgendo, le
luci nella casa dei bimbi sono già accese ma il Dida non perdona!
E nemmeno il gasolio di Sololo,. Attendiamo ore sulla pista nel deserto,
passa un mandria con due pastori, la Safaricom ci informa che non
c’è campo, finalmente arrivano i soccorsi prima il meccanico
poi Pino con un thermos d’acqua.
La decisione è presa: bisogna rientrare! Si esulta dalla gioia,
cantando Grau Grau ritorniamo alla guest-house, giochiamo con i bimbi
e di nuovo una serata all’cinema all’aperto e l’ormai
consueta nanna in braccio.
Alle 4 la sveglia, si riparte, Robert è lanciato nel buio,
rimbalziamo stile montagne russe, e alle prime luci dell’alba
nel deserto Robert esordisce con un“Oh my God…”
di nuovo in panne!, ma stavolta ‘pole, pole,’ si deve
andare avanti . Passata Marsabit, sorpresa! “tre elefanti!”…”Picture,
picture ”.
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Riflessioni:
Già da Nairobi e lungo le tappe del percorso si ha modo di
osservare e conoscere le mille sfumature della povertà, ma
quando arrivi a Sololo ti rendi conto di aver oltrepassato i confini
del mondo, della possibilità di comunicare o far percepire
le dimensioni della difficoltà che vive questo popolo: i Borana.
Quello che va in onda nei dintorni è un’ emergenza cronica,
con un carico di severa siccità che scatena una quotidiana
lotta alla sopravvivenza ed un insostenibile senso di impotenza generato
dagli imprevisti, dalle attese disattese, dall’incertezza, dai
mancati appuntamenti.
C’è un “Progetto Sololo” che è trainante
e che esprime il senso di continuità dell’esistenza,
pensato e costruito nell’ottica tradurre la disperazione in
sfida, non per nulla qui all’Obbitu Children Village ci sono
“gli ultimi tra gli ultimi” , gli orfani di tutto, che
in questa situazione hanno avuto l’occasione di reagire agli
eventi traumatici della loro vita per riorganizzarla positivamente,
hanno scoperto uno spazio dove ripristinare la loro dimensione e struttura
secondo la cultura a cui appartengono.
Gli effetti di questo incontro si vedono già nel mutare dei
loro sguardi e sorrisi: ci sono ancora le tracce di storie pesanti
e difficili, ma c’è la risposta giocosa alla vita , c’è
la voglia di farcela e la motivazione a riuscire bene, l’ambizione
di essere il primo a scuola o l’aspirazione a capo del villaggio
per chi già si considera “il piccolo Pino”.
C’è un pensiero che si traduce in azione-riflessione,
c’è la capacità di pensare in termini di previsione,
c’è un monitoraggio attento della situazione attraverso
la raccolta e la condivisione dei bisogni urgenti, il confronto sulle
risposte da dare, il dialogo tra logiche e culture diverse.
C’è attenzione quotidiana al problema e alla pianificazione:
“Situazione autocisterne in arrivo: una rotta, forse da Nairobi
ne recuperiamo una da 16000 litri (se mantengono la promessa) , un
viaggio a ogni villaggio di questa zona, almeno 6 viaggi per arrivare
alle piogge di Aprile; ‘qui al villaggio’ riempiamo tutto,
1 Tank sopra e uno sotto, prima usiamo quello sotto poi quello sopra,
così quello sotto rimane libero per l’arrivo delle piogge”.
Arrivano le cisterne dove stoccare l’acqua da distribuire alle
famiglie più povere; si confida che arrivi anche l’autocisterna.
C’è un territorio a partire da Sololo Makutana fino a
Sololo Town che da lì si dirama sulle due braccia di una Y
: si fa il conto delle famiglie di Ramolle, Sololo, sul lato sinistro
Annona, Gololle, Uran , sul ramo destro Madbo Adhi, Waye Goda . Si
contano i pozzi che funzionano e che non funzionano o vanno in esaurimento.
A Waye Goda è disponibile una gerica ogni 3 giorni. |
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Anche qui durante le visite domiciliari
gli incontri ti ammutoliscono e disarmano: carcasse di mucche , un
pastore che ti chiama disperato chiedendo aiuto per rialzare le sue
mucche che sono a terra e si lasciano morire, capanne vuote perché
le donne camminano per 40 chilometri su per la montagna verso l’Etiopia
in cerca d’acqua , un pastore che sta scuoiando una mucca morta,
ed altro ancora.
E’ costante l’obbligo a una scelta giustificata da criteri
rigorosi: le possibili soluzioni da attivare in risposta all’emergenza
perché occorre fare i conti con le risorse , coloro che in
un elenco di persone possono accedere alle scorte d’acqua del
progetto perché “ciò che si può dare”
è la quantità d’acqua reperibile al momento, a
quale tra le tante donne che camminano sotto il sole con le taniche
dare un passaggio.
Questo è il prezzo da pagare perché l’acqua non
è più considerata un bene ed un diritto umano naturale
e fondamentale, come il cibo, come la salute soprattutto in questa
parte del mondo.
Ma soprattutto c’è la convinzione e la fiducia che l’uomo
possa crescere, possa dare quel pezzettino in più che lo porti
oltre il suo livello di possibilità del momento, che gli consenta
di affrontare condizioni che deformano e invadono la tradizionale
struttura sociale della sua tribù e che gli permetta di trovare
la forza e le risorse per affermarsi senza dover sacrificare la propria
cultura e le proprie usanze
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