LA
STORIA DI TURU WARIO |
Un mattino di primavera del 1986, al Sololo Hospital è un mattino qualunque, si lavora con la routine dei malati, la pulizia delle corsie, il giro visite, la sala operatoria… vengo chiamato dal dispensario: un bambino in coma è appena stato portato su una piccola barella fatta di frasche intrecciate e stracci… anche questo fa parte in qualche modo della routine. |
Il bambino, sei o sette anni, si chiama Turu Wario, arriva dall’Etiopia, diverse ore di cammino a piedi portato da un fratello più grande, madre e altri; la storia come sempre è vaga e confusa, febbre, non mangia, debilitato, lo stregone ha già usato i suoi rimedi, ma Turu peggiora, non risponde più e allora si tenta ancora al Sololo Hospital. |
E’ stato Ware, il cuoco dell’ospedale, in qualche modo imparentato con il bambino, a spingere i genitori a portarlo all’ospedale. |
Perché qui a Sololo come in tutta l’Africa sperduta e dimenticata il primo medico è il guaritore tradizionale di villaggio, che sovente funziona. |
A Sololo, dove i mezzi diagnostici strumentali sono pressochè zero: le mani, gli occhi, il fonendoscopio e tanta pazienza e riflessione sul caso è tutto ciò di cui disponiamo per capire come mai questo bambino non risponde più, respira male, febbricitante… ha i segni di una meningite, e la puntura lombare conferma: meningite tubercolare. |
Con mia moglie si parla di Turu, si continua la discussione a casa, dopo cena, ma poi i malati sono tanti, anche gravi, e noi siamo in due medici soltanto per 100 letti… queste sono le risorse sanitarie di chi non ha voce, di chi non conta niente. |
La madre veglia il bambino con tenerezza, lo sguardo rassegnato… |
e lentamente Turu si risveglia, la cura sta funzionando, qualche fleboclisi per aiutarlo (non tante perché le scorte dell’ospedale sono sempre ridotte – non ci sono soldi- ). |
Turu si riprende, muove le braccia, comincia a deglutire, apre gli occh. Siamo tutti contenti, noi, gli infermieri, il cuoco Ware, il padre, sempre rimasto cupo ora sorride. |
Tutto bene, però – sembra bisbigliare timidamente la mamma – Turu non ci vede, non vede più la luce, non vede più nessuno… Turu è rimasto cieco… |
La rabbia dentro, lo sconforto, il senso di sconfitta: cosa farà questo bambino che fino a qualche settimana prima correva scalmanato e scalzo in mezzo alla boscaglia, che colpa ha dovuto pagare? |
Perché le medicine hanno funzionato su tutto e non sui nervi ottici? Che errore abbiamo fatto? |
Forse in Italia, in Svizzera o in qualunque altro paese ricco non sarebbe rimasto cieco. |
Mesi dopo, quel mattino Turu si presenta in ospedale a salutarci: divisa grigio scura, camicetta bianca, piccola valigia di latta blu, scarpe nere lucide, è in partenza per il sud del Kenya, andrà ad Egoji, dove c’è una scuola primaria per bambini ciechi. |
Il missionario di Sololo, con una rete di amici ha creato una rete di solidarietà verso Turu che durerà negli anni. |
Turu è sorridente, è contento di andare a scuola, comincia una nuova avventura per lui, cieco in mezzo a bambini ciechi. |
Alla spicciolata tutti vengono a salutarlo, le infermiere, Ware il cuoco che, grande e grosso, lo abbraccia che quasi lo soffoca. |
La macchina parte lentamente tra i lavoratori dell’ospedale che gli fanno festa intorno. |
Almeno, penso, non resterà a mendicare in qualche sperduto villaggio per tutta la vita. |
Gli anni passano e Turu ritorna durante le vacanze, si ferma in ospedale, tutti gli vogliono bene, ha un sorriso e uno sguardo aperti sinceri… peccato i suoi occhi non vedano. |
Nell’inverno del 1995 riceve un viaggio premio, arriva in Italia e con noi prova l’ebbrezza della neve, giù con il bob sulle nevi di Becetto, credo non si sia mai divertito tanto; prova a respirare il profumo del mare di Nizza e ascolta le onde che si infrangono. |
E’ difficile fargli provare il mare, che non ha mai visto. |
E la sera a casa ascolta la BBC alla radio, vuol imparare tante cose, legge in braille alcuni libri che si è portato. |
Tra le altre cose facciamo un’ulteriore visita oculistica a Torino, ma per i suoi occhi non c’è nulla da fare… |
E da Egoji passa a Thika, passa alla scuola secondaria, dove continua ad ottenere brillanti risultati: è un ragazzo maturo ormai, intelligente, studioso. Si accompagna con un ragazzo albino che ha anche lui grossi problemi di vista, ma che comunque un po’ ci vede e gli fa da guida. |
Arriva alla “Moi University” e si laurea in lettere un paio d’anni fa: ricordo ancora la mamma in quel lontano 1986: “Turu non ci vede… non vede più la luce…” Ora Turu è laureato. |
Certo un lavoro per un laureato cieco non è facile da trovare, soprattutto per chi vive all’estrema periferia povera di un paese africano; eppure bisogna trovarlo, non può vivere di elemosine: ne discutiamo io, Maria Teresa, Francesco, Guido… |
perché non impegarlo nel Sololo Hospital come insegnate per i bambini che hanno ricoveri lunghi? |
Bambini che talvolta stanno in ospedale 2-3 mesi per patologie croniche, amputati che aspettano la protesi, tubercolotici che passano 4-6 settimane ricoverati: tutte queste persone possono imparare a leggere e scrivere con uno come Turu che ogni pomeriggio gli insegna l’ABC. |
Una funzione anche sociale ed educativa dell’ospedale, un lavoro regolarmente remunerato per Turu, con il quale ora continua ad esserci un ottimo rapporto. |
Turu ora abita in ospedale, vicino all’amministratore Peter. |
Peter è un etiope imponente, ha il portamento e il modo di fare di un capo, ma è piuttosto sordo nonostante usi due apparecchi acustici e fa tenerezza quando al mattino alle 8 prende per mano Turu e lo accompagna al lavoro. |
Sono passati più di vent’anni e questa storia sta continuando senza scalpore, in sordina come è nata, ma ha creato solidarietà e profondi rapporti umani che resteranno negli anni. |
Turu è un dono per tutti noi… |
Silvio Galvagno |