Ma forse anche altri elementi più o meno sottaciuti in questi giorni stanno giocando il loro ruolo in queste drammatiche ore: secondo accordi che avevano preceduto l’elezione di Kibaki nel 2002 , Odinga avrebbe dovuto diventare primo ministro anche in base a una riforma costituzionale “ad hoc”; al contrario, quando nel 2005 era stata presentata dal governo una bozza di costituzione, il movimento “Orange” guidato da Odinga era riuscito a far bocciare il documento ritenuto da alcuni troppo sbilanciato verso il potere del governo centrale; in seguito alla successiva crisi di governo, nel novembre 2005, Odinga non era più entrato a far parte del gabinetto dei ministri. Il movimento “Arancio”, con emblemi tutti color arancione, è rimasto però attivo fino a costituire il motore politico e il serbatoio di voti, soprattutto negli slums di Nairobi e in altre zone svantaggiate del paese (il 50% della popolazione, nonostante i positvi sviluppi economici degli ultimi anni, rimane sotto la linea di povertà). Non è stato difficile per Odinga dipingersi come un paladino dei diseredati, giocando però purtroppo anche la carta dell’orgoglio della sua etnia, la “luo”, terza del paese, contro quella dei kikuyu, la più numerosa, a cui appartiene Kibaki e che viene percepita come troppo potente sin dai tempi di un altro famoso kikuyu, il primo presidente del Kenya, Jomo Kenyatta. Nonostante l’impegno del governo contro la corruzione - e i passi avanti internazionalmente riconosciuti sulla strada della democrazia, dopo il quasi quarto di secolo del “presidente-padrone” Daniel arap Moi (che si è di recente espresso a favore di Kibaki) - Odinga ha avuto facile gioco anche nell’agitare in campagna elettorale la clava dell’anticorruzione. In questo complicato contesto nazionale e internazionale, qui riassunto solo in termini più che stringati, chi davvero ha a cuore il futuro e la pace del Kenya, dell’Africa orientale, dell’intero continente – e forse del resto del mondo – non può schierarsi da una parte e vedere tutto il bene in un candidato e tutto il male nell’altro. Al di là di qualsiasi irregolarità del processo elettorale, qualsiasi uomo o istituzione di buona volontà e di pace oggi, mentre il paese si agita in modo pericoloso, non può che aiutare i due ex-alleati politici a incontrarsi, a deporre le armi delle accuse e a stabilire un dialogo che potrebbe forse far calare immediatamente la tensione nelle zone più surriscaldate del paese. E disarmerebbe qualsiasi mestatore interno o estero, non esclusi quei mezzi d’informazione che, già con il linguaggio, i resoconti a forti tinte, i bilanci di vittime in continuo aumento e la ricerca del sensazionale, continuano a spargere a piene mani quella maledetta miscela infiammabile di odio e disprezzo, spesso generosamente dispensata sulle piaghe dell’Africa, del Sud del mondo, delle aree di crisi e in genere di tutti quei popoli che più avrebbero invece bisogno di comprensione e solidarietà. Basterebbe pensare alle decine di migliaia di “sfollati dalla paura” che in Kenya stanno già dando vita all’ennesima emergenza umanitaria del mondo. . .(Pietro Mariano Benni)[MB] |