L'Africa e la Cooperazione allo sviluppo
(intervista al dott. Renzo Bozzo)
 

Renzo Bozzo, 63 anni, di Saluzzo. Quindici anni passati nel continente africano, dall'Etiopia, al Mozanbico, dal Kenya, alla Somalia, dall'Uganda alla Guinea Bissau, prima come medico e poi come professionista della cooperazione, con Organizzazioni non governative, Cooperazione Italiana allo sviluppo ed Organismi Internazionali.

Quando si parla del continente africano, ci sono sempre molti rischi e molte problematiche da affrontare: la difficoltà principale è quella di non cadere in facili generalizzazioni che sfociano in dilettantismo e banalita'.
Cercando quindi di evitare questi errori, ti chiedo come hai visto cambiare l’Africa, prima, dopo e durante la tua esperienza, per quanto riguarda proprio la cooperazione internazionale?

Non parlerei tanto di generalizzazioni, quanto di contraddizioni, dal momento che più che considerarla un tutt'uno l'Africa rapprensenta per molti, una proiezione di coscienze frammentarie, di nostri desideri insoddisfatti, di bisogni frustrati, di quello che pensiamo e di pregiudizi che difficilmente ci permettono di rinchiudere questo universo nella sua interezza.

Per essere più rispondenti alla domanda è certo che, ritornando a piu' riprese in Africa, si avverte l'impressione che le guerre, la povertà, la siccità, le carestie, la disperazione di un intero continente non finiranno mai, con un conseguente pessimismo che può diventare paralizzante.

Per contro vi sono momenti che trasmettono felicità e speranza, momenti in cui la creatività del popolo africano, l'apprezzamento delle piccole cose, l'imperturbabilità, il gusto del gioco, della danza e del ridere, sembrano nascere e superare i bisogni, anche quelli più elementari.

E questa è la contraddizione a cui mi riferivo.

Un altro esempio è la sensazione che all'inizio si tende a condividere: che tutti i fallimenti di questo continente siano attribuibili al colonialismo, al comportamento dell'Occidente, in altre parole, a fattori comunque e sempre esterni.
Con il passare del tempo, poi, si comincia a vedere gli africani, e in particolare la loro élite politica, come i responsabili o co-responsabili della drammatica situazione nella quale si trova il continente.

Non si tratta quindi solo di stabilire quanto e come è cambiata questa entità chiamata Africa, ma anche e soprattuto di capire come è cambiata e perche' la nostra visione dell'Africa.

E la doppia anima dell'Africa, oltre che riflettersi in una realtà obiettiva ed esteriore, si ripercuote all'interno di chi in questa terra lavora, fino a renderlo stordito e confuso.

Negli anno '80 quando ho iniziato, vi era un approccio alla cooperazione da parte dei cooperanti stessi molto più entusiasta ed immediata. Vi erano diversi tipi di bisogni: un tempo i bianchi cercavano di supplire alla mancanza di una classe dirigente locale; basti pensare che i laureati alla fine della decolonizzazione erano meno di 100 per tutto il continente.
L'entusiasmo dei primi cooperanti era certamente dovuto al sentirsi partecipi della nascita di una nuova realtà, alla consapevolezza di creare qualche cosa che sarebbe rimasto alle persone che si andava ad aiutare; in quegli anni questo tipo di volontariato, che si rispecchiava nell'internazionale comunista e nella fratellanza dei popoli, ma anche in determinati principi evangelici, era decisamente in voga.

Come è cambiato questo iniziale entusiasmo?

Potrei rispondere chiedendo a mia volta cosa si sia ricavato dai miliardi investiti in aiuto allo sviluppo, a parte le cattedrali nel deserto, i progetti in rovina e le speranze disattese.

A poco a poco si è fatta strada la convinzione che il fallimento fosse insito proprio nel concetto di aiuto allo sviluppo.

Ma fino dalla fase della decolonizzazione, dietro il motivo filantropico, si celava il calcolo strategico della Guerra Fredda e nella lotta per l'egemonia politica, i due grandi blocchi fecero la felicità del continente africano apportando quei modelli, capitalistico o comunista, che consideravano migliori.
Le grandi agenzie per l'aiuto allo sviluppo ( UNDP, UNICEF, FAO ecc.), per arrivare alle ONG, di fronte ai vari fallimenti, hanno cambiato le loro strategie, si sono date sempre nuove priorità e quello che, alla fine, sembra essere emerso è un esercito di soccorritori che fanno affari attorno alla povertà.
Quante volte abbiamo visto, specie durante calamità ed emergenze, decine di organizzazioni che spesso si sovrapponevano con le loro attività.

Ciò non esclude che esistano organizzazioni sane e che vi siano tuttora cooperanti che si impegnano con abnegazione nel tentativo di trovare una soluzione ai mille problemi di questo continente, di portare un aiuto reale e non finalizzato ad altre logiche.

Se ai fattori sopra indicati si aggiunge anche lo scontro con le autorità locali, la maleducazione del personale burocratico, la brutalità di certe metropoli africane, il pressapochismo diffuso, l'apparente o reale disinteresse dei leaders per la povertà dei loro popoli, si può capire che l'entusiasmo, forse un po’ troppo ingenuo, nell’avvicinarsi alla realtà africana con una forte carica ideologica ed umanitaria, sia andato diminuendo velocemente con il passare del tempo.

Com’è cambiata quindi, in questi anni, la cooperazione allo sviluppo? Si è passati da volontari spinti dai buoni principi, ma probabilmente un po' sprovveduti, a manager dello sviluppo con più capacità, ma meno ideali?

La cooperazione ha portato più soldi e dove questi arrivano in gran quantità è sempre difficile mantenere un determinato grado di purezza; la cooperazione è passata ad avere persone che magari erano anche dei dilettanti, ma animati da spirito di servizio, ad avere dei professionisti, così come ha richiesto la crescita nazionale e la burocratizzazione della società africana.

La prima volta che sono stato a Kelafo, nella regione somala dell' Etiopia, facevo il medico, adesso questo ruolo non mi è più possibile perché l'obiettivo dei nuovi progetti è quello di supportare la regione ed il suo apparato sanitario, quindi un lavoro molto più tecnico e manageriale, ma più limitato.

Oggi queste strutture locali necessitano di aiuto tecnico e di fondi e per questo ci sono progetti di cooperazione che sono di supporto alle autorità locali. Purtroppo è in questi casi che il livello di corruzione aumenta, perché i soldi che danno le ONG e che non provengono dallo stato centrale risultano essere in alcuni casi l'unico introito per le autorità della regione.

Dopo così tanti anni di Africa, quali sono le tue esperienze di mala-cooperazione, da dove nascono e quali danni hanno arrecato?

Tutto ciò che determina mala cooperazione può nascere in parte dagli interessi delle ONG, che comunque devono auto-sostenersi per sopravvivere e ciò vuol dire che soddisfano in alcuni casi i propri bisogni e non quelli della collettività; molte poi sono ancora affette da scarsa professionalità, poca capacita' di gestione delle risorse umane e finanziarie, tendono ancora, anche se non tutte, a non inserirsi nel paese in cui operano e spesso dopo un progetto triennale vanno via senza creare una sostenibilità futura.

Invece i grandi organismi internazionali, Onu, Unicef, Cooperazione Italiana ecc., hanno più interessi politici che altro, con il rischio di creare una sussidiarietà che dà dipendenza.
Durante gli anni dei socialisti di Craxi, per esempio, la cooperazione italiana ha sprecato un’enorme quantità di fondi, regalando sussidi, che in maggioranza sono finiti nella mani di politicanti , in Etiopia come in Somalia.

Viene quindi spontaneo chiedersi se la cooperazione allo sviluppo esistente ormai da 40 anni, ha completamente fallito, è stata inutile o quasi oppure vi è ancora speranza?

Risposta non facile: mi verrebbe da dire che non vi è stata politica che abbia dato buoni risultati.

Un po' di anni fa si era iniziato a parlare di progetti regionali nei quali si prendeva in considerazione una regione di qualche stato africano e poi si iniziava una painificazione e ricostruzione di tutto, dal settore sanitario a quello educativo, finanaziario, e cosi' via, oggi questa strategia sembra essere stata completamente abbandonata.

Prima la dipendenza era la monocultura: il paese colonizzatore obbligava a coltivare per l’esportazione caffe', banane, cacao, in questo modo poteva ottenere prodotti esotici a prezzi irrisori; poi quando il prezzo della merce crollava, e negli anni '80 questo si è verificato spesso, la crisi economica diventava inevitabile.

Si è infatti sempre parlato di come la decolonizzazione politica sia finita là dove è cominciata quella economica ( il neocolonialismo)

Ma allora si puo arrivare a pensare che questi paesi stessero meglio come colonie europee?

La maggior parte dei paesi subsahariani si trova oggi in condizioni peggiori di quelle in cui versava alla fine del periodo coloniale.

E' vero che si è avuto un notevole calo della mortalità infantile ed è cresciuta l'età media di vita, ma almeno 3/4 dei circa 700 milioni di africani vivono nella miseria e un bambino su tre è denutrito.
La produzione alimentare non sta al passo con l'incremento demografico e più di 30 milioni di persone sono sieropositive.
I ricercatori di una fondazione tedesca nel 2000 valutarono, insieme ad alcuni esperti africani, le prospettive del continente e conclusero che lo sviluppo, inteso come riduzione della povertà , non sarebbe stato possibile, nella maggioranza dei paesi africani prima di 40/50 anni.

Altri paesi colonizzati hanno invece saputo risollevarsi, non l'Africa.

Alcuni, forse con una valutazione venata da razzismo, ritengono che la causa sia da ricercarsi negli africani stessi e nella loro incapacità di fare progressi.

Altri ritengono che l'indigenza africana sia legata a fattori esterni ed alcuni arrivano anche a pensare ad una cospirazione globale dei paesi ricchi nei confronti di quelli poveri.

Vari elementi intervengono a determinare l'attuale situazione dell'Africa dove cause esterne ed interne si rafforzano tra loro.
Ancora oggi le infrastrutture, scuole ed ospedali, sono limitate, i mezzi di trasporto sono insufficienti e le vie di comunicazione insicure.

Il colonialismo ha distrutto i tradizionali metodi di coltura, la struttura sociale ed i valori tradizionali, sostituendoli con un sistema coercitivo ed ha lasciato dietro di sè stati e popoli a dilaniarsi tra loro, incapaci di affrontare la competizione mondiale.

Ma forse la causa per cui, dopo oltre 50 anni di indipendenza , gli stati africani non si sono ancora ripresi, è da ricercarsi nel fatto che il colonialismo non ha preparato questi stati alla modernità.

L’unico immediato e deleterio cambiamento è stato che le élite autoctone, dopo l’indipendenza si sono sostituite a quelle precendenti ereditandone posizioni e privilegi. Già molti anni fa Frantz Fanon, precursore della rivoluzione anticolonialista, in una sua opera, aveva descritto i rischi del passaggio da un saccheggio straniero ad uno autoctono:
“ Non voglio perdermi in analisi ed interpretazioni che non sono di mia competenza e che ci porterebbero troppo lontano, ma vorrei soffermarmi un attimo sull’importanza della Guerra Fredda quando le superpotenze conducevano le loro guerre fredde per procura nel terzo mondo e tolleravano, quando non sostenevano o incoraggiavano, i corrotti regimi monopartitici.”

Quando la guerra fredda terminò, molti regimi monopartitici crollarono e molti popoli precipitarono nella violenza e nell’anarchia, che ancora sussistono in alcune parti, in quanto dietro ai cosiddetti signori della guerra esistono ancora paesi europei che forniscono soldi, armi e consulenti militari.

In questa situazione mi pare che non ci sia da aspettarsi molto dai paesi ricchi, se non un po’ di aiuto alla cooperazione allo sviluppo ed un pugno di esperti, mentre la maggior parte degli africani continua a vivere con una economia di sopravvivenza basata sul lavoro nero e sulla famiglia allargata dove tutti contribuiscono con piccoli introiti.

Mi vengono in mente milioni di donne africane, che ho visto in tutti i paesi dove sono passato, e che zappano la terra sotto un caldo soffocante, fano kilometri per raccogliere legna ed acqua con un bambino ciondolante sulla schiena. E mi piace pensare che qui dovrebbe iniziare la liberazione del continente africano e non negli innumerevoli e costosi convegni fatti di innumerevoli parole sempre più vuote.

Se poi volevi sapere se gli africani, a livello individuale, stessero meglio nel periodo coloniale, lo dovresti chiedere a quegli africani che, in qualche modo, sono sopravvissuti ai vari uragani della Storia..

La “Mia Africa” raccontata da Karen Blixen esiste ancora?

Figure come Karen Blixen in Kenya, il dottor. Swatzeir in Congo ed altri hanno rappresentato il volto buono del colonialismo, senza però mai uscire dalla logica dei colonizzatori. E forse a quei tempi era il massimo che potessero fare.

Ora tali figure sono state superate e non potrebbero più esistere, ma sono state sostituite da personaggi, sia laici che religiosi, che dedicano la loro vita alle comunità più povere, ai bambini abbandonati, ai malati di Aids, e che possono in un certo modo esserne considerati gli eredi.
La differenza sta nel fatto che questi ultimi non vivono in ville lussuose , circondate da prati inglesi e serviti del lavoro degli schiavi, ma a volte in baraccopoli, condividendo la povertà e affidandosi alla generosità altrui.

L’Africa di cui parli non esisterà mai più, ma un certo paternalismo, buonismo ed assistenzialismo caritativo è ancora presente e questo finisce con ledere la dignità della popolazioni africane e nello stesso tempo fa trovare le auto dei cooperanti davanti ai locali notturni delle città o davanti a Sheraton ed Hilton, auto che dovrebbero essere utilizzte per progetti e che invece vengono utilizzate per scopi personali.

Addis Ababa, 28-05-2006

Marco Demichelis